Almarina


“Perché ci vuole un sacco di tempo,

o una poesia perfetta,

per dire davvero le cose come stanno”



In Almarina c’è luce, la luce del sole, la luce del buio e del chiuso che può aprirsi. C’è odore e colore di mare, anche se questo mare è sullo sfondo e fa da contorno alla stanzialità e all’isolamento di Nisida.

A chi guarda dal Parco Virgiliano, Nisida appare enorme eppure piccola, il carcere è lassù, imperioso, ma sembra fermo, inoperoso, vuoto.

La protagonista di questo romanzo, Elisabetta, ci porta con sé su quella salita, attraverso quei passi nell’aria rarefatta “tra il casotto delle guardie e quel cancello” in un posto che mai attraverseremmo nella vita. E in cui c’è più vita di quanta ne immaginiamo. Elisabetta insegna matematica ai ragazzi di Nisida. Lì dove ci sono speranze e liturgie, ci sono quotidianità e passati ingombranti, difficili da definire o da catalogare. Ci sono notti insonni, torti subiti, vendette studiate e solo rimandate. Ci sono visi e corpi. Bollori adolescenziali e sguardi da adulti.

Nisida è un carcere minorile, uno dei pochi in Italia e ospita minori maschi e femmine. Io questo non lo sapevo. Immaginavo solo giovani detenuti uomini. L’ho scoperto grazie ad Almarina, l’ho scoperto grazie ad Elisabetta. Al suo essere soltanto il suo lavoro, dopo la morte di Antonio, suo marito, alla sua solitudine, al suo non riuscire a prendere calore nel suo letto, al suo non aprire gli scuri delle finestre, perché ad Antonio non piaceva la luce. Al suo essere insegnante, al suo saper vedere oltre lo sguardo dei ragazzi, al suo entrare in sintonia, al suo lento riaprirsi al mondo.

Ancora una volta ritrovo pezzi di me in Elisabetta, come in tutti personaggi e le storie di Valeria Parrella. Pezzi del mio lessico, pezzi della mia città, pezzi di strade, di tufo, colori e sensazioni. Pezzi di vita e di pensieri. Pezzi di ansie, pezzi di paure: “Era tutto normale: gli agenti dal vetro della porta vedevano un allievo che scriveva numeri. E gli altri a copiarli. L’insegnante appoggiata a un banco a guardare l’aula. Dentro di sé: l’insegnante che si riempie di gocce, non riesce a prendere calore nel letto anche a maggio. le fa male il braccio ed è l’infarto. le fa male la pancia ed è l’appendicite, non è abbastanza grave da chiamare i vicini, ma neppure abbastanza normale per dormire. […] la testa che gira è una scossa di terremoto, ma il sudore senz’altro la menopausa.”

Ho amato Elisabetta perché combatte strenuamente affrontando la sua quotidianità in un posto che può sembrare ostile, ma che invece sarà il luogo che le donerà la libertà. E’ una combattente inconsapevole, chiusa e accartocciata com’è nei suoi ricordi e nelle sue paure. E’ una donna che sente il peso dei suoi anni, delle sue scelte, delle mancate occasioni, dei suoi desideri che si stanno lentamente trasformando in rimpianti. E’ una donna come tante e per questo straordinaria come lo è ogni donna. Una donna con dei dubbi che inconsapevolmente diventano i suoi punti di forza. Una donna che ama, una donna che ha ancora bisogno di sentirsi amata e toccata, che lotta con tutte le forze per ciò che le si rivela come l’unica cosa da fare: dare tutta se stessa ad un’altra persona, darle fiducia ed un tetto, calore e presenza, nutrimento e protezione. Riportare alla vita sé stessa e un’altra da sé in cui rispecchiarsi, in cui cercare riscatto o, più semplicemente, guarigione.



Almarina è un romanzo pieno di speranza, di ricordi, di riscatto. Pieno di luce. E’ un romanzo sulla consapevolezza che siamo noi a decidere come e cosa vogliamo essere, anche se sembra che non a tutti venga data questa possibilità. E’ un romanzo sulla capacità di rialzarsi, di riscrivere il proprio itinerario, anche se il precedente è stato deviato o interrotto bruscamente. E’ un romanzo sulla libertà, sull’onestà verso se stessi. Sul prendersi le proprie responsabilità, sul poter scegliere. Sul poter cambiare il proprio destino. E’ una storia che racconta di noi stessi, di come le barriere e le prigioni vere o immaginarie in cui siamo rinchiusi, non ci definiscono, non ci ingabbiano davvero.



“Noi prendiamo questi faldoni e li riponiamo nel più remoto archivio della memoria e dopo nascondiamo la chiave. La nostra speranza, credo, è che quel giorno, ora lontano, in cui avranno scontato tutta la pena, tornerà loro nelle mani questa chiave, e dagli archivi spalancati voleranno fogli bianchi senza più inchiostro sopra, immacolati, come il bucato steso alle terrazze”.


Antonella Ciliberti


Almarina, un romanzo di Valeria Parrella, edito da Einaudi, 2019







Commenti

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